martedì 12 maggio 2015

Così mi sono ammalata di sesso…


Così mi sono ammalata di sesso…

La drammatica confessione di una sex addict, patologia in crescita vertiginosa tra le donne

di Maria Egizia Fiaschetti
1 aprile 2015
Negli Stati Uniti, la dipendenza sessuale coinvolge circa il 5% della popolazione (9 milioni di americani), come rivela l’ultima indagine della Society for the Advancement of Sexual Health (www.sash.net). La patologia, più frequente nella popolazione maschile, è in crescita vertiginosa tra le donne: vedi Valerie, l’ex sex addict sulla copertina di Newsweek, che ha perso due mariti e il lavoro. I casi al femminile, si moltiplicano anche in Italia: secondo il Centro Nostos di Senigallia, infatti,le donne porno-dipendenti sarebbero aumentate del 15 per cento. Compulsione a fasi alterne, spesso legata a particolari momenti della vita.
È la storia di Valentina (la chiameremo così), che si scopre bulimica un’estate di sedici anni fa. Sono le vacanze della maturità, il trimestre sabbatico di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La diciannovenne, neodiplomata al liceo classico, è nella casa al mare dei genitori, sulla Riviera Adriatica. I suoi si sono separati da poco e la ragazza non accetta la nuova compagna del padre: “Da lei ha avuto il figlio maschio tanto desiderato”, rivela. Già, perché il piccolo Giovanni porta quello che sarebbe dovuto essere il suo nome: Valentina, infatti, è la terza di tre sorelle, con buona pace dei pronostici paterni. “Ricordo il senso di frustrazione per aver deluso le sue aspettative – racconta – . Da bambina, cercavo in ogni modo di attirare la sua attenzione”.
Al contrario di quanto spesso accade, ovvero lo sviluppo di un’indole mascolina per compiacere l’adulto di riferimento, il cortocircuito affettivo la spinge a cercare conferme all’esterno: “Credo di aver accentuato il più possibile la mia femminilità – riflette – forse per colmare quel vuoto”. Minigonne vertiginose, camicie sbottonate con generoso décolleté, trucco marcato. I primi approcci con la sessualità, in età adolescenziale, si connotano subito per la ricerca spasmodica di consenso: “Volevo sentirmi capace di provocare piacere, per rendermi indispensabile“. Una droga in carne e ossa, come meccanismo di transfert per sopperire alle sue mancanze. La maratona da un flirt all’altro raggiunge l’apice in quell’estate del ’95: “Le mie amiche si erano diplomate con il massimo dei voti, mentre io ebbi la sufficienza. Pensavo che l’unico modo di emergere fosse mostrarmi disinibita”. Tant’è: tra la battigia e le serate in discoteca,Valentina colleziona più di sessanta conquiste. Complice la sua avvenenza, esibita con sapiente maestria: “Per farli cadere ai miei piedi – ammette – bastava un’occhiata”.
Il rituale si ripete, fino all’incontro con un trentenne: la relazione viaggia in parallelo a quella con il suo fidanzato di allora. Il partner clandestino, all’inizio, sembra “un angelo”. Qualche mese dopo, si rivelerà un mostro: “M’insultava e picchiava senza motivo. Ero schiava di quel rapporto distruttivo”. La rottura non è immune da contraccolpi psicologici: Valentina perde autostima e crede di poter mantenere rapporti stabili solo con l’incondizionata disponibilità sessuale: “Portarli subito a letto, era l’unico modo di tenerli legati a me“. Il metodo, però, si rivela fallimentare: “Mi illudevo che ci saremmo frequentati, che potesse nascere qualcosa di più profondo, ma se mi cercavano di nuovo era solo per divertirsi”.
A poco a poco, la femme fatale dagli occhi tristi cade in un circolo vizioso: “Era un’ossessione: adescavo uomini di tutte le età, incurante del loro aspetto fisico. Sapevo che stava diventando una malattia, ma il bisogno era più forte di me”. Meccanismo compulsivo, al punto da usare tre cellulari: “Squillavano in continuazione e non li spegnevo mai, neanche di notte. Ne tenevo sempre uno acceso sotto il cuscino”. Incontri, gusti e caratteristiche di ognuno sono annotati con rigorosa puntualità sulla sua agenda. Nel gorgo emotivo rimane invischiata a lungo, con picchi di depressione e autolesionismo: “Per punirmi, mi tagliavo l’interno delle cosce con una lametta”. La famiglia intuisce, ma qualsiasi tentativo di dialogo è stroncato sul nascere: “Mi ribellavo in modo aggressivo – confessa Valentina – e mi chiudevo nella mia stanza”. L’indizio più palese è l’abbigliamento, poco adatto a una studentessa universitaria: “Vedendomi uscire la mattina, vestita in quel modo, leggevo disapprovazione nello sguardo di mia madre. Avrebbe voluto rimproverarmi, ma si tratteneva per paura della mia reazione”.
A segnare la svolta, traumatica, è un aborto spontaneo: non il primo, ma il più doloroso. “L’ennesima relazione violenta – ricorda Valentina – che mi ha spinto a elaborare il lutto con un’analisi più profonda”. Il percorso terapeutico – otto ore al giorno per due anni – si svolge alla Società italiana patologie compulsive di Bolzano: “Per la prima volta – ricostruisce l’ex paziente – ho preso coscienza della mia malattia e ho iniziato a interrogarmi sulle possibile cause“. Risultato del trattamento in comunità: “Ho imparato a distinguere l’impulso dalla propulsione coattiva a ripetere”. Il ritorno alla normalità è stato lento, ma adesso Valentina si sente guarita: “Ho un compagno da diversi anni e, dopo essermi laureata, lavoro come interprete”.




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