mercoledì 22 giugno 2016

Il caso Ferrante, il romanzo italiano secondo il New Yorker



Il caso Ferrante, il romanzo italiano secondo il New Yorker


La fortuna dell’autrice che nessuno ha mai visto emblema delle contraddizioni della nostra letteratura

Paolo di Paolo
13 / 10 / 2014
C’è sempre qualcosa di misterioso nella fortuna critica di un autore all’estero. Gli ostacoli sono tanti: la complessità stilistica, la traducibilità di un immaginario, di un orizzonte storico e culturale. A Elena Ferrante, la misteriosa autrice di L’amore molesto, è accaduto il miracolo che accade a pochissimi autori italiani: essere scoperta e celebrata in America.  

Sul mercato anglofono siamo di solito debolissimi, e semmai ci pensano gli americani stessi a spargere – quando serve – un po’ di italianità caricaturale sui loro romanzi (è il caso di Mangia prega ama di Elizabeth Gilbert, per esempio, o del Dan Brown in salsa vaticana). A entrare nel dibattito culturale sono riusciti forse solo Calvino e Umberto Eco (l’ultimo romanzo di Jeffrey Eugenides, La trama del matrimonio, chiama in causa il nostro professore già nelle prime pagine); se la sono cavata la Fallaci, Calasso, e più di recente Severgnini, Baricco e Saviano. Il nobile lavoro di Jonathan Galassi su Montale e poi su Leopardi fa eccezione.  

Merita perciò di essere studiato il fenomeno-Ferrante: un’autrice di cui tuttora si ignora l’identità salutata qualche settimana fa dal New Yorker come una grande artista. Molly Fischer dice di aver cominciato a leggere il primo volume della trilogia L’amica geniale e di non essere riuscita più a fermarsi. Richiamandosi ad alcune serie tv che mettono in scena l’amicizia femminile, Fischer spiega come l’abilità di Ferrante sia stata quella di raccontare un rapporto fra donne nel corso degli anni, la sua evoluzione nel tempo.  

Ancora sulle colonne del New Yorker, a inizio 2013, il critico James Wood parlava, a proposito di I giorni dell’abbandono, di «literary excitement». La traduttrice di Ferrante, Ann Goldstein, elogia la pagina della scrittrice napoletana come intensa, puntando il dito contro il resto della prosa letteraria italiana, che sarebbe «flowery», infiorettata e troppo elaborata.  

Sarà. C’è qualcosa che non torna; qualcosa, diciamolo pure, di sproporzionato. Ai lettori e critici americani i romanzi di Ferrante piacciono perché le trame sono oliate, la mano narrativa è solida, la lingua piana, e Napoli, quando c’è, è un fondale che non impegna troppo, sta lì come una stampa turistica con Vesuvio e golfo. Si fa leggere con partecipazione emotiva, le sue vicende sono traghettabili ovunque: una separazione dolorosa nei Giorni dell’abbandono; una scrittrice di successo, che guarda caso si chiama Elena e con un romanzo «osceno» irrita il piccolo mondo da cui proviene, nella Storia di chi fugge e di chi resta. È dunque «universale» Elena Ferrante? 

Al cinema, da noi, l’hanno portata Martone e Faenza; i letterati italiani anche più sofisticati ed esigenti (Fofi, Guglielmi) l’hanno omaggiata, ma non prenderebbero in considerazione con la stessa serietà romanzi di autrici non così dissimili da Ferrante, per tematiche e stile, come Cristina Comencini, Simonetta Agnello Hornby o Sveva Casati Modignani. Vai a capire perché. Se fosse un’altra autrice – una che, per usare un’espressione corrente, «ci mette la faccia» – sarebbero più severi i nostri professori: le perdonerebbero, per esempio, un indice dei personaggi come quello che apre Storia di chi fugge? Ha tutta l’aria del riassunto di una soap tipo Un posto al sole. Le perdonerebbero frasi come «mi aveva smosso la carne senza smuovere la sua, brutto stronzo». Se le scrive la Mazzantini non vanno bene; se le scrive la Ferrante sì. Ma la forza di Ferrante è, più che nei suoi libri, nel suo non esserci, la sua distanza abissale da tutto: nessuno l’ha mai vista, nessuno l’ha mai intervistata di persona, nessuno l’ha mai incrociata per caso, come perfino al vecchio eremita Salinger era accaduto al supermercato. Non se ne ha nemmeno una foto giovanile, come dell’altro grande solitario Thomas Pynchon. 

Sono abbastanza patetici, perciò, i dialoghi con giornalisti e critici raccolti nel 2003 nel volume La frantumaglia: gli intervistatori mandano le domande alla casa editrice e/o e poi arrivano, da chissà dove, le risposte. Pensose, con tanto di pose e civetterie di chi si concede con il contagocce e finisce per essere più irritante dei peggiori narcisi. È un libro pieno di salamelecchi, di abbracci, di finte confessioni: un corpo a corpo impossibile con la Grande Assente della letteratura italiana.  

La «morte dell’autore» di cui tanto aridamente si discuteva in quel ’68 caro alla Ferrante, è diventata questo nome e cognome così allusivi da sembrare finti. Elsa Morante, Elena Ferrante; Napoli, la Grecia: no, non mi convince. E che a scrivere questi romanzi sia Domenico Starnone o Anita Raja importa fino a un certo punto: sarebbe di per sé molto triste e imbarazzante dover scoprire, fra anni, le verità di un teatrino troppo furbo. Qualcuno obietterà che il gioco degli pseudonimi in letteratura è lecito. Sì, ma è raro che stia in piedi per più di vent’anni. E comunque, in quanto gioco, è infinitamente meno interessante di una vita, di una faccia, di un’esperienza reale. Si può restare appartati senza diventare fantasmi. Così la letteratura somiglia a un software che produce storie, o al canovaccio di una impeccabile ma algida serie tv. Così, la letteratura italiana – in America e non solo là – rischia di restare senza volto.

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