mercoledì 6 luglio 2016

Roddy Doyle / Voglio morire guardando una partita

Roddy Doyle

Roddy Doyle: voglio morire guardando una partita

Nel nuovo romanzo lo strano incontro fra due amici (uno è nella bara). “Parlo di fine vita e desideri. Che non devono essere tabù a nessuna età”

Roddy Doyle è nato a Dublino nel 1958. Ha vinto il Booker Prize nel 1993 con «Paddy Clarke ah ah ah!». I suoi romanzi «I Commitments» e «The Snapper» sono diventati film di successo. Prima di diventare scrittore a tempo pieno, ha fatto l’insegnante di inglese e geografia. A Dublino ha fondato «Fighting Words», centro di scrittura creativa gratuito

Elisabetta Pagani
17 / 06 / 2016

Sarà il clima da Europei, ma Roddy Doyle, se proprio dovesse, vorrebbe morire guardando una partita di calcio. O almeno è quello che risponderebbe se glielo chiedeste adesso, perché anni fa avrebbe scelto un’altra opzione: scrivendo. «È vero, ma è un argomento su cui cambio spesso idea» sorride lo scrittore e sceneggiatore irlandese, vincitore del Booker Prize nel 1993 con Paddy Clarke ah ah ah! 

Doyle ha una grande passione per il calcio, oltre che per le Guinness e l’opera, e una vera e propria ossessione per la letteratura. E non solo, come sarebbe scontato, perché per mestiere scrive romanzi, racconti brevi e opere teatrali. «La mancanza di letteratura ha un effetto negativo sulla vita delle persone - ama ripetere - è una cosa che ho toccato con mano». E quindi ha fondato e dirige a Dublino «Fighting Words», centro gratuito di scrittura creativa per bambini, e con il suo nuovo lavoro, L’amico di una vita (il titolo originale è il più evocativoDead Man Talking; sarà nelle librerie italiane da giovedì), partecipa alla campagna Quick Reads per avvicinare alla lettura chi si scoraggia di fronte a tomi troppo voluminosi e finisce col non aprire pagina.  

«Mi hanno chiesto un romanzo di meno di 10.000 parole, ed eccolo qua». Il risultato è un libriccino divertente e misterioso che si legge tutto d’un fiato, zeppo di dialoghi com’è tradizione dei suoi romanzi, spesso trasportati al cinema (I Commitments e The Snapper) o a teatro (La donna che sbatteva nelle porte). Un libro di poco più di un centinaio di pagine che è stato distribuito in prigioni e ospedali. La scena si svolge quasi esclusivamente a casa di Joe, amico intimo del protagonista Pat. I due hanno rotto da anni e si riparlano solo la sera della vigilia del funerale di Joe. Sì, con Joe nella bara, più vivo che morto, e Pat incredulo che si vede passare davanti la sua vita, o meglio, le varie direzioni che avrebbe potuto prendere la sua vita. Se solo quel giorno…  

L’obiettivo dell’iniziativa era catturare nuovi lettori, ha funzionato?  
«Non lo so, ma ho parlato con un detenuto che lo ha letto e si è divertito. Mi basta. Finire un libro dà sempre una bella sensazione, è come raggiungere un traguardo. Dobbiamo incoraggiare chi non lo fa o non lo fa abbastanza a scoprirlo». 

Non è che nell’epoca dei social network e della comunicazione stringata la letteratura per sopravvivere deve ridurre pagine e complessità? Una casa editrice italiana ha lanciato un anno fa i «distillati», versioni condensate di romanzi di Grisham, Larsson e altri. Cosa ne pensa?  
«Da scrittore la trovo un’idea orribile, non la approvo. Dire che corto è bello e lungo è difficile è falso. Non si possono accorciare i libri».  

L’amico di una vita è una storia che parla di vita, morte e desiderio.  
«È un romanzo divertente ma anche cupo, oscuro. Racconta di un uomo, Pat, che non ha mai realizzato i suoi desideri e in una sera li rincontra uno a uno. Vanno e vengono continuamente e sembrano dargli l’illusione di poter ritoccare il passato. Tutti noi, soprattutto ad una certa età, ci chiediamo: ma cosa sarebbe successo se avessi incontrato quella persona, o detto quella cosa? Purtroppo nella nostra società il desiderio è un sentimento che non deve essere menzionato per chi non è più giovane. Se un uomo è sposato deve essere felice, punto. Ma non è così».  

Se anche lei, come Pat, incontrasse un uomo morto che parla, cosa gli chiederebbe?  
«Proverebbe che tutto quello in cui credo è falso, morto. E allora avrei davvero tante domande da fargli». 

«Il paradiso non esiste», rivela Joe dalla bara a Pat. Da ateo convinto lei l’ha sempre saputo…  
«Sì, dopo la morte per me non c’è nulla». 

La Chiesa cattolica non le piace, ha detto che il suo trionfo è stato riuscire a vivere libero dal giogo del cattolicesimo. Molti non credenti però guardano con più simpatia alla Chiesa con Papa Francesco. Lei?  
«Può suonare rude, ma non me ne frega nulla né della Chiesa né del Papa. Per fortuna l’Irlanda non è più un Paese cattolico, da 10-20 anni non importa più a nessuno quale sia la tua religione, o se tu ne abbia una. È un Paese in cui oggi, come ateo, mi sento a mio agio. Di Francesco l’unica cosa che mi interessa è che è un tifoso di calcio». 

Anche lei lo è. Mercoledì si gioca Italia-Irlanda, pronostici?  
«Uno a uno, un bel match combattuto». 

L’Irlanda però non si riscopre patriottica solo con Europei e Mondiali, come l’Italia.  
«Sicuramente c’è parecchia eccitazione. Ma calcio a parte, questo per l’Irlanda è un anno speciale, ricorre il centenario della Rivolta di Pasqua, la ribellione per ottenere l’indipendenza dal Regno Unito. Ci sono state rievocazioni, concerti, eventi. È un bell’anno, questo, per essere irlandesi». 

A proposito di Gran Bretagna, giovedì c’è il referendum sulla Brexit, cosa ne pensa?  
«Spero che votino per restare nella Ue. Non so dire di più». 

Tornando ai suoi romanzi, raccontano spesso la classe operaia, come i film di Ken Loach. Il regista inglese, dopo aver vinto la Palma d’Oro, ha detto che il cinema deve lottare contro il potere. Anche la letteratura?  
«Ken Loach fa film potenti, interessanti. Ma se tutti gli artisti avessero la sua stessa cifra non sarebbero artisti, no?». 

Altra costante dei suoi romanzi, da I Commitments a Paddy Clarke a Due sulla strada, è la celebrazione dell’amicizia. È il legame più importante?  
«Dopo l’essere genitori sì». 

Cos’è per lei l’amicizia?  
«Rassicurazione, storia, condivisione, rifugio, una cosa di valore. Devo continuare?». 

È più dell’amore?  
«L’amore è una cosa enorme, però sì, l’amicizia è di più». 

In L’amico di una vita si riflette sulla morte. Ha mai pensato a come vorrebbe morire?  
«Velocemente, guardando una partita di football». 

Ma una qualunque? Le basterebbe un uno a uno, come Italia-Irlanda?  
«Beh, è vero, no, facciamo mentre l’Irlanda segna il secondo gol, quello del vantaggio. E comunque non in questo Europeo eh! Molto più avanti». 

Su Facebook è molto attivo: perché sotto alcuni post compaiono sempre due pinte di Guinness?  
«Rappresentano due uomini di mezza età che dialogano in un pub, e compaiono ogni volta che scrivo una storia su Facebook che li riguardi». 

A uno scrittore però, ha detto, serve anche la vita reale: «Uno scrittore sta a casa, ma deve crearsi pretesti per uscire e vedere come il mondo sta cambiando».  
«Il mio ufficio è casa mia, e questo non significa necessariamente isolarsi dalle dinamiche del mondo perché in una casa, per tutti noi, avvengono molte cose. Certo poi bisogna uscire per aggiornarsi sul modo di parlare, di viaggiare, di comportarsi della gente. La mia vita mi piace, ma per trovare ispirazione bisogna uscire nel mondo». 



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