martedì 18 ottobre 2016

Bob Dylan,Nobel per la Letteratura / Nelle sue ballate l’epica popolare


Bob Dylan,Nobel per la Letteratura

Nelle sue ballate l’epica popolare


Nelle «ballate omeriche» del cantautore, l’epica civile dove Eliot parla con Pound
mentre certi fan riconoscono nei suoi versi echi biblici, talmudici e cabalistici

di GIUSEPPE ANTONELLI

18 ottobre 2016 (modifica il 18 ottobre 2016 | 16:17)

«The times they are a-changin’». Così, alla fine, è successo. Proprio nel giorno in cui è morto Dario Fo, l’Accademia di Svezia ha dato un nuovo Nobel alla voce. Alla parola detta: o meglio, in questo caso, cantata.

The answer is blowin’ in the wind

Tanta poesia antica, va detto, era concepita o recitata con un accompagnamento musicale. Ma il premio dato a Dylan ratifica qualcosa che ha cominciato ad accadere mezzo secolo fa. Quando, verso la metà degli anni Sessanta, la canzone ha avuto l’ardire di presentarsi non solo come nuova poesia popolare (o pop-orale) ma anche come nuova poesia civile. Secondo un’inchiesta svolta nel 1965 dalla rivista «Esquire», per gli studenti delle università americane le tre persone più importanti del momento erano John Kennedy, Bob Dylan e Fidel Castro. Nel dicembre dello stesso anno, un titolo del «New York Times» recitava: «Bob Dylan è l’erede di Faulkner e di Hemingway?». Se il riferimento era al fatto che i due avevano vinto il premio Nobel, la risposta ha smesso di soffiare nel vento.

Mr. Tambourine man, play a song for me

Parlando di Joey, in un’intervista del 1991, Dylan diceva: «secondo me, non per vantarmi, questa canzone è come una ballata omerica». Il Nobel di ieri sovverte un paradigma; rende definitivamente vecchia la distinzione (così com’eravamo abituati a concepirla) tra cultura alta e cultura bassa. Anche da noi, d’altra parte, da almeno due generazioni Mister Tamburino ha sostituito nell’immaginario collettivo il Tamburino sardo del libro Cuore. E i ragazzi sanno a memoria i versi di Knockin’ on Heaven’s Door molto più di quelli del paradiso dantesco. (Anche se, è stato notato, nei testi di Dylan i riferimenti danteschi non mancano: il «burning coal» di Tangled Up in Blue, ad esempio, riprende alla lettera la traduzione inglese di «occhi di bragia»).


Love & Theft

Anche la poeticità criptica o surreale di certa canzone d’autore italiana si dovrebbe – secondo alcune ricostruzioni – non alla nostra poesia novecentesca, ma al modello di Bob Dylan. Lui a sua volta aveva fatto suo quello di tanti altri poeti, tra cui Eliot e Pound (che in Desolation Rowdiscutono sul ponte di comando del Titanic) o quelli della beat generation. Così la pensava, all’altezza del 1978, anche Francesco Guccini, che – contraddicendo «i critici snob intellettual-liceal-universitari», riconosceva in De Gregori non un linguaggio ermetico o montaliano, ma «dylaniano». Un’influenza diventata peraltro esplicita, lo scorso anno, con la pubblicazione dell’album-tributo Amore e furto. De Gregori canta Dylan. Lavoro nel quale De Gregori si tiene a debita distanza (lo ha dichiarato apertamente) dalla ponderosissima tradizione esegetica che nel tempo si è stratificata sui testi di Dylan. Per i commentatori che in ogni frase riconoscono una provenienza biblica, talmudica o cabalistica è stata già coniata la definizione di «Bobolatri» («You may call me Bobby, you may call me Zimmy», Gotta Serve Somebody).


Like a Rolling Stone

Sono passati più di quarant’anni da quando Fernanda Pivano scriveva che «al di là dello stellismo, al di là dell’industria discografica, al di là perfino della vanità personale o del culto della personalità, Bob Dylan non fu soltanto un cantante e un chitarrista, ma fu soprattutto un poeta e un profeta». Quel passato remoto era già pieno di nostalgia: «Once upon a time you dressed so fine» …






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