giovedì 6 ottobre 2016

Rielaborazioni del fantastico / Considerazioni su una novella di H.H. Ewers


H.H. Ewers

Rielaborazioni del fantastico

Considerazioni su una novella di H.H. Ewers




30 SET 2016
di
SALVATORE INCARDONA



Scrittore, cineasta, scenografo, direttore di un importante teatro berlinese, spiritista, dandy raffinato, sperimentatore di sostanze stupefacenti, nazionalista e allo stesso tempo viaggiatore instancabile, difensore dei diritti degli omosessuali ma sostenitore del nazionalsocialismo. Malgrado in vita fosse riuscito a raggiungere un certo successo (sia nel proprio paese che all'estero), a distanza di settant'anni dalla morte Hanns Heinz Ewers è una figura quasi del tutto dimenticata, o forse sarebbe meglio dire volutamente accantonata.
Già dalla breve presentazione iniziale è possibile intuire quanto la sua personalità appaia tuttora equivoca e contraddittoria, e tale dovette apparire anche ai suoi contemporanei, per i quali fu sempre un personaggio scomodo, ingombrante, privo di definizione e ai limiti dell'assurdo. Benché lo scrittore di Düsseldorf sia stato spesso annoverato fra i rappresentanti della letteratura fantastica di inizio Novecento, nelle sue pagine – come in questo caso e come nel caso di altri scrittori coevi – non c'è quasi mai alcuna palese manifestazione dell'irrazionale e le frequenti derive nel campo dell'assurdo vengono stemperate sempre dal tentativo di razionalizzare il male. Tentando di interiorizzare le paure umane, di proiettarle entro lo spazio dell'inconscio o di un destino irrimediabilmente agganciato alle immutabili catene genetiche dell'ereditarietà, il fantastico di Ewers assume quindi una forma secolarizzata.
Un valido esempio può essere costituito da una novella scritta nel 1906 e pubblicata tre anni più tardi, Gli indiani blu. Lo scrittore tedesco racconta in prima persona dell'incontro con una tribù di nativi del Messico, i Momoskapan, i quali si distinguono dagli altri grazie alla loro particolare pigmentazione cutanea. Tuttavia, ciò che (paradossalmente) desta l'interesse del protagonista non è il colore blu dei Momoskapan, quanto la loro sorprendente capacità mnemonica. Interrogando alcuni membri della tribù, egli si accorge infatti che si tratta di «una memoria che era in grado di risalire ben oltre la nascita e che possedeva i dettagli della vita dei genitori». Significativamente, il racconto reca in esergo un motto biblico: «I padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez. XVIII, 3), e non a caso, subito dopo la singolare scoperta, il protagonista accetta come un dato di fatto la straordinaria facoltà di questa popolazione:
«Perché non dovrebbe essere possibile? Io ho gli occhi verdi come mia madre e la fronte sporgente come mio padre. Tutto può essere trasmesso, ogni elemento, ogni capacità. E non potrebbe quindi essere trasmessa anche la memoria? Il gattino ancora piccolo soffia e inarca la schiena di fronte al cane. Perché? Istintivamente, attraverso la memoria di migliaia di generazioni, ricorda che quella è per lui la miglior difesa […]. È proprio questo l’istinto: la memoria degli antenati […]. Ma se adesso fosse vero ciò che ho scoperto? Se oggi fossi me stesso e… mio padre e uno dei miei antenati? E se adesso ciò che contiene il mio cervello non morisse e fosse in grado di rivivere e svilupparsi nei miei figli e nei miei nipoti? Se in me stesso potessi riconciliare un’eterna rivoluzione?»
Ma le possibilità mnemoniche di questa tribù vanno ben oltre le aspettative del protagonista, poiché alcuni membri della comunità sono in grado di risalire anche a parecchie generazioni precedenti. Egli scopre infatti fra i Momoskapan una ragazza che, in stati di particolare eccitazione, manifesta il ricordo di un prete europeo proveniente addirittura dalle conquiste del sedicesimo secolo. Al fine di innescare nella giovane un processo di esaltazione della coscienza, egli le somministra quindi una forte dose di peyote e grazie a questo riesce a richiamare in vita i ricordi connessi al vecchissimo antenato. Esacerbata dalla droga, la ragazza indiana – o meglio, il sacerdote riapparso nella sua mente infervorata – comanda a un altro nativo presente all'esperimento di amputarsi la lingua, e questi, in preda a un atavico timore, esegue l'ordine senza riuscire a opporre resistenza:
«"Fuori, fuori, staccala con un morso quella lingua maledetta!". Davanti a questo tremendo dominio dell’uomo bianco, oramai assopito da secoli e che ricompariva adesso inaspettatamente, questo dominio infernale cui un tempo sottostavano i padri privi di volontà, questa manciata di parole terribili di fronte alle quali gli avi si piegavano in un tormento senza nome, tutto ciò annullava adesso lo scarto temporale. Era diventato uno sventurato animale che doveva sbranare se stesso poiché il suo signore lo desiderava. E lui ubbidiva, doveva ubbidire» (Ivi, cit. pp. 95-96).
L'idea di una trasmissibilità delle esperienze del soggetto era ben consolidata nell'ambiente scientifico del tempo. Già in uno studio del 1876 intitolato Sul rapporto fa corpo e anima, il fisiologo tedesco Ewald Hering aveva definito la memoria come una funzione generale della materia organica. Sulla base di questa teoria e degli ulteriori sviluppi promossi dallo zoologo Richard Semon, un allievo di Hering, Ernst Haeckel sostenne invece che i fenomeni dell'ereditarietà andavano spiegati attraverso la memoria elementare delle molecole del plasma. Non è affatto casuale che Gli indiani blu sia stato scritto 1906, pochi mesi dopo la pubblicazione di Die Lebenswunder(Le meraviglie della vita). Senza il sostegno delle tesi di Haeckel, sarebbe stato difficile per Ewers spiegare la memoria come proprietà fondamentale della materia e sciogliere in questo modo uno dei nodi legati all'evoluzione, e cioè la tendenza dei caratteri a conservarsi. Per il biologo tedesco la prima forma di memoria consiste infatti nella ereditarietà dei caratteri determinata dalla generazione. Quest’ultima, allora, non sarebbe altro che continuità mnemonica, e il rapporto fra generazione e accrescimento dovrebbe essere inteso quale sviluppo della vita fondato sull’accumulo ininterrotto di memoria organica. La memoria, meccanismo ontogenetico dell’eredità, ripete quindi nel nostro cervello le impressioni che nel corso della vita individuale vengono assimilate attraverso l’esperienza, l’istruzione, l’adattamento, ecc.
Qui come in altre opere dello stesso periodo, Ewers sembra strenuamente convinto dell'inalterabilità delle caratteristiche genetiche tramandate attraverso la procreazione. Il destino dell'uomo è quello di essere schiavo della trasmissione dei caratteri e quindi segnato in partenza dal marchio dei propri avi. L'esperienza e l'ambiente gioca allora un ruolo marginale nell'esistenza umana, poiché i fenomeni ontogenetici dell'ereditarietà avrebbero sempre la meglio su di lui, a dispetto di qualsiasi tentativo di correzione.



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