mercoledì 12 luglio 2017

Vivian Gornick / Tra figlia e madre l’amore è feroce / Jonathan Lethem


Vivian Gornick

Tra figlia e madre l’amore è feroce

Jonathan Lethem



Jonathan Lethem legge il memoir della femminista newyorkese Vivian Gornick, che esplora il complicato legame con un ingombrante modello femminile e domestico






Quando ci si appresta a scrivere l’introduzione a un libro che si ama da anni e anni, capita di trovarsi a sfogliare l’edizione precedente, a rigirarsela tra le mani, a tuffarcisi dentro, a imbattersi di nuovo in certe frasi e di nuovo stupirsi del loro slancio e della loro freschezza, come davanti a una fonte di perpetua sorpresa. 



Capita anche di tornare all’inizio, sperando di scoprire che la tua introduzione sia già lì, già scritta – perché la sensazione che quell’opera ti ha trasmesso già tante volte è questa: che conosca i tuoi pensieri. Il libro è un oggetto in incessante movimento, che manda di suo un continuo mormorio, e si può solo sperare, sfiorandolo, di alterare appena la sua traiettoria in modo da consegnarlo a una ribalta universale.



Poster di T.A.




Perché non posso limitarmi ad affermare che Legami feroci di Vivian Gornick è un libro da leggere assolutamente? A insistere perché questo libro percorra le strade del mondo come un vessillo, quel vessillo che già è nella mia mente e che guida la mia marcia? E intanto, accarezzando questa vecchia edizione, leggo otto strilli, tutti piuttosto intensi, tutti scritti da donne; che sia io il primo uomo a sostenere questo libro? (Controllo un’edizione ancora precedente che ho nella mia libreria, e ovviamente non è così.) Il memoir di Vivian Gornick possiede quella cifra folle, scintillante e assoluta che tende a collocare un libro fuori dal contesto e poi a farlo diventare a buon diritto oggetto di venerazione, un «classico», un libro «senza tempo». E tuttavia, almeno a prima vista, si tratta di un memoir incentrato sui grovigli di un rapporto madre-figlia, un memoir scritto negli anni Ottanta (prima del boom) da una scrittrice legata in modo orgoglioso, se non lineare, al movimento femminista. È cosa giusta, allora, che io lo ami, che arrivi a brandirlo come un frammento del mio cuore? Sì. La fascinazione che avvince il lettore diLegami feroci non ha niente a che vedere con una stolida curiosità per i dettagli della vita di Gornick o di sua madre, né con una facile immedesimazione legata a somiglianze o a contesti sovrapponibili, e nemmeno con la comunanza di genere. L’immedesimazione, in Legami feroci, funziona per altre vie.



Quando ci immergiamo nella franchezza bruciante e all’apparenza spiccia del libro, ci rendiamo conto di diventare Vivian Gornick (o la voce narrante che porta il suo nome), proprio come diventiamo sua madre, e poi Nettie Levine, la giovane vicina passionale e nichilista che diventa il terzo personaggio principale del libro, formando con la madre e con la figlia quello che Richard Howard ha definito «L’intreccio affettivo ed erotico con il quale noi triangoliamo le nostre vite». 


Poster di T.A.




Eppure il nostro senso di immedesimazione non si limita a queste tre donne. Lungo il percorso del disvelamento di sé, Gornick ci trascina in brevi, ustionanti alleanze con tre uomini, amanti e mariti: Stefan, Davey e Joe. E anche, en passant, con una manciata di altri vicini del Bronx, con una psichiatra, e ovviamente con l’inafferrabile padre. Fornendo a ogni attore in scena occhi con i quali osservare la narratrice che lo guarda, e una voce per rivaleggiare con lei in acume, Gornick ha inciso queste figure, per quanto fulminee, vive sulla pagina. Nessuno sfugge al suo sguardo né lei sfugge a quello altrui. Non sto parlando di imparzialità, virtù sopravvalutata in letteratura e forse anche nella vita. Si può affermare che Gornick demolisce il suo cast di personaggi, ma secondo questo parametro demolirebbe anche se stessa. Io preferisco dire che, come un mago che sfila la tovaglia da una tavola apparecchiata, riesce nel miracolo di lasciare se stessa e i suoi protagonisti intatti e rifulgenti di quello che credo non si possa che chiamare amore. Un amore senza sconti. 



Questa potrebbe essere una chiusa niente male, ma cedo alla tentazione di un ulteriore tributo, da scrittore e da uomo, alla memorialista e saggista che insieme a Phillip Lopate e Geoff Dyer mi ha insegnato tutto quello che so sull’arte di depurare dalle idiozie le frasi che riguardano me stesso. Detesto ricorrere all’epiteto «uno scrittore per scrittori», ma Legami feroci chiama l’applauso che si deve all’opera di un tecnico sopraffino; il controllo di una forma distillata della scena e del dialogo, delle battute fulminanti e trattenute, dell’uso degli spazi bianchi sulla pagina induce a chiedersi come mai non si sia mai misurata con la narrativa di finzione verso la quale dichiara in maniera così pregnante il suo amore nei saggi critici. Come molta della scrittura che amo di più, anche Legami feroci prende forza dall’uso del paradosso.



Poster di T.A.


Queste pagine contengono la descrizione che più amo del momento in cui un aspirante scrittore si rende conto di essere uno scrittore e basta, nel bene e nel male, senza badare a quanto appare nebuloso il cammino che ha davanti. Nel secondo anno del mio matrimonio fece per la prima volta la sua comparsa dentro di me lo spazio rettangolare. Stavo scrivendo un saggio critico, un esercizio da specializzanda che mi era sbocciato senza preavviso nel pensiero, un pensiero pieno e raggiante. Le frasi cominciarono a sgorgare dentro di me, premendo per uscire; l’una guizzava all’inseguimento di quella prima. Mi resi conto all’improvviso di essere sotto il controllo di un’immagine: ne vedevo chiara la forma e il contorno. Le frasi cercavano di riempire quella forma. L’immagine era l’interezza del mio pensiero. In quel preciso istante mi sentii come spalancare. I miei contorni interiori si aprirono a formare quel rettangolo libero, tutto aria tersa e spazio vuoto, che mi partiva dalla fronte e finiva nell’inguine. Al centro del rettangolo solo la mia idea, in attesa di definirsi. In quel momento sperimentai una gioia che sapevo non sarebbe stata mai eguagliata. 



Più avanti nel libro Gornick pare rimpiangere l’incapacità di questo rettangolo di allignare, di espandersi, di includere una parte più grande della sua vita. Il paradosso è doppio: il libro che avete tra le mani, lo stess o libro che descrive questa resistenza e questa frustrazione, è la prova che il rettangolo di Gornick ha fatto proprio questo, è cresciuto fino a inglobare non solo la sua vita ma, per la durata del libro, anche quella del lettore. E tuttavia, nonostante l’ampiezza dei suoi confini, rimane precisamente intimo e particolare come nella prima descrizione della sua comparsa: della misura esatta del suo corpo. 


Vivian Gornick
«Legami feroci» 
(Trad. Elena Dal Pra)
Bompiani, pp. 240, € 17



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